Sempre più spesso mi capita di chiudere gli occhi, di
godere l’aria che entra e l’aria che esce. Ciò che accade è sorprendente. È
come prender parte e rianimare il mio corpo per troppo tempo disabitato,
desensibilizzato, anestetizzato e, semplicemente attraverso il respiro,
restituirgli pian piano la possibilità di “sentire”. È così che, nei momenti in
cui prende forte la voglia di fumare, gradatamente, mettendoci parole, affiora
il dolore, la rabbia, la frustrazione per ciò che non posso cambiare,
l’amarezza, la paura di fallire. Quella voglia di boccata tossica che molto
spesso altro non è che la ricerca spasmodica di un rifugio sicuro, di uno stare
al mondo senza più troppi affanni, senza più troppe ansie e fatica
nell’incontrare l’altro diverso da sé. Desiderio di un abbraccio. Di qualcuno
che ti dica: “Ci penso io a te, riposati!”.
La voglia di fumare copre la maschera, tatua perennemente
l’imbroglio carnevalesco, il quale a sua volta cela sempre il disagio. Quando
cresce il disagio, torna il bisogno di una dose... di una dose di fumo, così
come potrebbe essere una dose di alcol, una dose di cibo, una dose di sesso,
una dose di sport. Chi la traduce con il fumare, chi con il bere, chi con il
cibo, chi con il sesso, chi con l’andare a correre, chi chiamando un amico.
Con la dose non stiamo bene, ma cerchiamo di non stare
male. Sembrano la stessa cosa, ma la differenza è profonda. La maschera ci
illude di vivere perennemente in un’agorà carnevalesca. In realtà, alla base,
sussiste un enorme equivoco. Nell’istante immediatamente successivo, il livello
del disagio regredisce. Ma il benessere, essendo fasullo, dura poco.
Confondere, quindi, l'essere felici e lo star bene, con
il non essere infelici e il non star male, è un primo elemento di
fraintendimento comune. Ed in questo impercettibile confine che può instaurarsi
la dipendenza. Ci creiamo una distrazione perpetua dal disagio esistenziale. Ci
aggrappiamo all’oggetto di dipendenza per non sentire. Ci si abitua a certe
emozioni tossiche, pur di non sentirne altre che si sembrano più spaventose. Preferiamo
una falsa felicità pulcinelliana piuttosto che correre il rischio di dover
attraversare il vuoto, prima di un sorriso autentico. La paura non ci consente
di attraversare tutta la grotta e vedere dall’altra parte cosa c’è. Ci
interrompiamo sempre nello stesso punto. Infatti, pur cambiando corpi,
maschere, oggetti, scenografie; le emozioni, le colpe e le pretese sono sempre
le stesse.
Provare a rimanere senza soluzioni, senza correre verso
la propria dose personale è l'azione più coraggiosa che si possa fare. La via
verso la disintossicazione emozionale passa, necessariamente, per il sentire il
proprio corpo. Il corpo che si risveglia, il respiro che ci tiene in vita e la
mente che si placa e si abitua a trovare strategie di coping più sane per
integrare il disagio. Togliersi la maschera, guardarsi allo specchio, entrare
in contatto con la propria anima, vedere riflesso il proprio demone. Ombra che
ci spaventa, sentire il terrore di essere uccisi da questa, e scoprire, alla
fine, che non uccide. Nella solitudine contattiamo il vuoto, l’ombra, il sé
autentico, l'assenza di direzione. Unica verità per accogliere il nuovo e far
sì che quel vuoto sia fertile. Quando sentiamo la voglia della nostra dose, che
sia una sigaretta o una relazione fasulla, che a mo’ di cerotto copre l’ansia,
respira!
Dal respiro senti la fiducia che attraversa l’intero corpo,
sensazioni che fanno sentire brividi di vita. Sì, sei vivo. Meglio vivo e
dolorante, che morto e anestetizzato. Curare il proprio respiro è amarsi, è
sperimentare con il corpo ogni emozione, la quale resta impressa per rimanervi
registrata laddove prima era solo diffidenza. È così che si costruisce casa,
sapete? L’unica casa reale e concreta da curare e amare è il nostro corpo. Il
respiro allora diventa la strada per “riabitarsi”, sentire il vuoto, o le
sofferenze personali, contattare le antiche ferite, sperimentare che al di là
della grotta buia, c’è vita!
Respira…
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