mercoledì 6 aprile 2022

Non fumo, io respiro!


Tocco ancora la tasca posteriore dei jeans, sapete? Ma toccandomi mi dico: “Tutti abbiamo in tasca la medicina più antica del mondo, il respiro!”. L’aria entra fresca dal naso ed esce calda dalle labbra socchiuse. Insieme all’aria entra anche la luce, massaggia gli organi interni e quando esce, con il respiro, lasciamo andare un po' di grigio, un po' di buio, un po' di ansia. Da quando non mi faccio più di nicotina, ho iniziato a portare l’attenzione sul respiro. Questo non vuol dire intenzionalmente modificarlo ma solo rendermene conto, diventare più consapevole. Voi ci pensate mai all’atto di respirare? Vi soffermate mai al suo significato?

Sempre più spesso mi capita di chiudere gli occhi, di godere l’aria che entra e l’aria che esce. Ciò che accade è sorprendente. È come prender parte e rianimare il mio corpo per troppo tempo disabitato, desensibilizzato, anestetizzato e, semplicemente attraverso il respiro, restituirgli pian piano la possibilità di “sentire”. È così che, nei momenti in cui prende forte la voglia di fumare, gradatamente, mettendoci parole, affiora il dolore, la rabbia, la frustrazione per ciò che non posso cambiare, l’amarezza, la paura di fallire. Quella voglia di boccata tossica che molto spesso altro non è che la ricerca spasmodica di un rifugio sicuro, di uno stare al mondo senza più troppi affanni, senza più troppe ansie e fatica nell’incontrare l’altro diverso da sé. Desiderio di un abbraccio. Di qualcuno che ti dica: “Ci penso io a te, riposati!”.

La voglia di fumare copre la maschera, tatua perennemente l’imbroglio carnevalesco, il quale a sua volta cela sempre il disagio. Quando cresce il disagio, torna il bisogno di una dose... di una dose di fumo, così come potrebbe essere una dose di alcol, una dose di cibo, una dose di sesso, una dose di sport. Chi la traduce con il fumare, chi con il bere, chi con il cibo, chi con il sesso, chi con l’andare a correre, chi chiamando un amico.

Con la dose non stiamo bene, ma cerchiamo di non stare male. Sembrano la stessa cosa, ma la differenza è profonda. La maschera ci illude di vivere perennemente in un’agorà carnevalesca. In realtà, alla base, sussiste un enorme equivoco. Nell’istante immediatamente successivo, il livello del disagio regredisce. Ma il benessere, essendo fasullo, dura poco.

Confondere, quindi, l'essere felici e lo star bene, con il non essere infelici e il non star male, è un primo elemento di fraintendimento comune. Ed in questo impercettibile confine che può instaurarsi la dipendenza. Ci creiamo una distrazione perpetua dal disagio esistenziale. Ci aggrappiamo all’oggetto di dipendenza per non sentire. Ci si abitua a certe emozioni tossiche, pur di non sentirne altre che si sembrano più spaventose. Preferiamo una falsa felicità pulcinelliana piuttosto che correre il rischio di dover attraversare il vuoto, prima di un sorriso autentico. La paura non ci consente di attraversare tutta la grotta e vedere dall’altra parte cosa c’è. Ci interrompiamo sempre nello stesso punto. Infatti, pur cambiando corpi, maschere, oggetti, scenografie; le emozioni, le colpe e le pretese sono sempre le stesse.

Provare a rimanere senza soluzioni, senza correre verso la propria dose personale è l'azione più coraggiosa che si possa fare. La via verso la disintossicazione emozionale passa, necessariamente, per il sentire il proprio corpo. Il corpo che si risveglia, il respiro che ci tiene in vita e la mente che si placa e si abitua a trovare strategie di coping più sane per integrare il disagio. Togliersi la maschera, guardarsi allo specchio, entrare in contatto con la propria anima, vedere riflesso il proprio demone. Ombra che ci spaventa, sentire il terrore di essere uccisi da questa, e scoprire, alla fine, che non uccide. Nella solitudine contattiamo il vuoto, l’ombra, il sé autentico, l'assenza di direzione. Unica verità per accogliere il nuovo e far sì che quel vuoto sia fertile. Quando sentiamo la voglia della nostra dose, che sia una sigaretta o una relazione fasulla, che a mo’ di cerotto copre l’ansia, respira!

Dal respiro senti la fiducia che attraversa l’intero corpo, sensazioni che fanno sentire brividi di vita. Sì, sei vivo. Meglio vivo e dolorante, che morto e anestetizzato. Curare il proprio respiro è amarsi, è sperimentare con il corpo ogni emozione, la quale resta impressa per rimanervi registrata laddove prima era solo diffidenza. È così che si costruisce casa, sapete? L’unica casa reale e concreta da curare e amare è il nostro corpo. Il respiro allora diventa la strada per “riabitarsi”, sentire il vuoto, o le sofferenze personali, contattare le antiche ferite, sperimentare che al di là della grotta buia, c’è vita!

Respira…

(psicoterapeuta)
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